Per anni l’efficienza operativa è stata il principio guida delle operations: ottimizzare i tempi, ridurre gli sprechi, standardizzare le attività, contenere i costi, razionalizzare le linee e minimizzare le scorte. L’obiettivo era “fare meglio e più veloce”, attraverso una gestione interna snella e predittiva. Una logica funzionale e necessaria che ha garantito competitività in contesti relativamente stabili, dove domanda e offerta erano più prevedibili, e le variabili esterne meno volatili.
Oggi però le condizioni sono cambiate. Secondo l’ultimo rapporto della Banca Europea per gli Investimenti, in collaborazione con la Commissione Europea, il 37% delle imprese dell’UE segnala difficoltà nell’accesso a materie prime e il 34% riporta problemi nella logistica e nei trasporti. Le imprese reagiscono con misure tattiche di breve periodo: incremento delle scorte, diversificazione dei fornitori, adozione di strumenti digitali per migliorare la visibilità della supply chain (EIB – Navigating supply chain disruptions, 2024)
Tuttavia, queste azioni non sono sufficienti a garantire continuità e competitività nel medio-lungo periodo. Variabili esterne come instabilità geopolitica, pressioni normative, vincoli ambientali e volatilità dei mercati, impongono un ripensamento più profondo. Secondo la Commissione Europea, le value chain europee legate a tecnologie strategiche presentano livelli strutturali di dipendenza da input critici, spesso concentrati in aree geopoliticamente fragili. La sicurezza operativa diventa così una questione di sostenibilità industriale e autonomia strategica (JRC – Supply chain analysis in strategic technologies, 2023).
A fronte di queste evidenze, è chiaro che la sola efficienza operativa non basta più. Serve un nuovo approccio, orientato alla resilienza, alla capacità di adattamento e alla gestione sistemica del rischio.
Questo cambio di scenario richiede un ripensamento radicale dei processi aziendali. Le logiche tradizionali, fondate su funzioni e silos, mostrano limiti evidenti nel gestire flussi complessi e vulnerabili. È necessario partire dal cliente finale e risalire a ritroso lungo la catena di fornitura, per individuare dove realmente si creano blocchi e discontinuità.
In questa prospettiva il processo - inteso come sequenza finalizzata di attività che genera valore per il cliente - diventa l’unità fondamentale per leggere, progettare e governare il sistema operativo dell’impresa. Intervenire sui processi significa agire sulla struttura reale del lavoro, dove strategia e operatività si incontrano. È lì che si annidano ritardi, sprechi, rigidità organizzative, ma anche le opportunità per recuperare reattività, controllo e continuità.
La resilienza non si costruisce eliminando il rischio, ma integrandolo nella progettazione del sistema: differenziare le fonti, accorciare le catene, sviluppare capacità decisionali distribuite. Il processo, se ben definito, misurato e gestito, diventa il canale attraverso cui assorbire shock e riallineare rapidamente l’operatività agli obiettivi.
La qualità dei dati è un altro asset fondamentale. Non si tratta di raccogliere “più informazioni”, ma di disporre di quelle rilevanti, affidabili e tempestive, per abilitare decisioni operative rapide e fondate. La visibilità estesa, fino al terzo o quarto livello di fornitura, è oggi un fattore abilitante. Secondo il Business Continuity Institute, l’80% delle organizzazioni ha subito almeno una disruption significativa nella propria supply chain nel 2024, e oltre il 43% attribuisce queste criticità a terze parti (BCI – Supply Chain Resilience Report, 2024).
Anche l’organizzazione interna va ripensata: superare i silos, creare team interfunzionali, spostare le responsabilità decisionali verso chi è vicino ai problemi. Le aziende più resilienti sono quelle che adottano strutture operative snelle, con ruoli chiari e capacità di intervento immediato sui flussi critici.
Ripensare i processi in un contesto instabile significa intervenire con metodo su tre direttrici operative:
Trattare il rischio come variabile progettuale, non come eccezione: questo implica analizzare criticamente la configurazione della supply chain, mappare i punti di dipendenza critici, valutare l’esposizione sistemica e introdurre ridondanze selettive. Significa anche disegnare processi che includano percorsi alternativi e tempi di risposta misurabili in caso di deviazioni.
Utilizzare i dati per decidere, non solo per misurare: serve dotarsi di sistemi informativi che non si limitino a tracciare performance passate, ma che offrano dati operativi aggiornati in tempo reale, integrati lungo l’intero processo e strutturati per supportare decisioni quotidiane e strategiche. Le informazioni devono essere affidabili, tempestive, accessibili e collegate a indicatori di processo coerenti.
Ripensare responsabilità e strutture per abilitare interventi rapidi e distribuiti: significa uscire dalla logica del controllo centrale e favorire l’autonomia operativa dove avvengono le deviazioni. Questo richiede chiarezza nei ruoli, standard condivisi e un’organizzazione dei team orientata al flusso, non alla funzione.
Non basta ottimizzare ciò che già esiste, serve costruire un sistema operativo robusto, visibile, flessibile, in cui ogni processo sia progettato, misurato e gestito per assorbire le discontinuità senza compromettere la continuità produttiva o la qualità del servizio.
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